PERSONAGGI

Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore dai mille volti

Sigismondo Pandolfo Malatesta è stato uno dei più importanti – se non il più – condottieri della Romagna rinascimentale, ultimo vero potente della Famiglia Malatesta. Grande combattente, sagace stratega, mecenate attento alle arti e alle scienze, incarna appieno la Signoria Rinascimentale sul modello reso noto da personaggi come Lorenzo De Medici. La sua Signoria si è spesso contrapposta a quella dei Montefeltro, in particolare con il duca Federico, contro il quale spesso ha mosso battaglia per il dominio dei territori dell’attuale bassa Romagna e Marche.

 

Figlio illegittimo di Pandolfo III Malatesta e Antonia di Giacomino dei Barignano, una nobildonna di origine lombarda, nacque  il 19 giugno 1417 quasi certamente a Brescia, di cui il padre era SignoreAll’età di dieci anni, rimasto orfano del padre, venne a Rimini con i fratelli Galeotto Roberto e Domenico, alla corte dello zio Carlo Malatesta; questi, privo di eredi, accolse i tre nipoti sotto la sua protezione e ne ottenne dal papa la legittimazione. Nel 1429, alla morte di Carlo, ereditò la Signoria il primogenito Galeotto Roberto, che due anni dopo abbandonò la vita mondana e lasciò il potere nelle mani del giovanissimo Sigismondo, appena quindicenne, e di suo fratello minore Domenico Novello, di un anno più giovane, i quali, anche per l’età acerba, disposero di dividersi le aree di rispettiva competenza, in una sorta di governo consortile, con una serie di accordi (1433, 1437, 1442 e 1451) la cui frequenza è indice delle ricorrenti discordie tra i due. In particolare a Sigismondo Pandolfo spettarono tutte le terre a sud del Marecchia, comprendenti Rimini, Santarcangelo, Scorticata, Fano e il rettorato di Sant’Agata Feltria. Nel 1433 l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo passò da Rimini e in quell’occasione investì Sigismondo Pandolfo cavaliere.

Nel 1434 sposò Ginevra, figlia di Niccolò d’Este. Sigismondo, che aveva mostrato precocissime attitudini militari, divenne uno dei più abili e valorosi capitani delle armi pontificie e fu nominato gonfaloniere della Santa Sede. Nel 1440, morta Ginevra, Francesco Sforza offrì a Sigismondo la mano della figlia Polissena. Nel 1444, al termine di una brillante campagna militare, conquistò Senigallia e Mondavio.

Dal 1444 al 1447 Gli le battaglie che Sigismondo svolse come Capitano per conto delle Signorie più agguerrite nella penisola italica del tempo furono molteplici, a volte con un fronte e a volte con il fronte opposto. Fu spesso accusato di slealtà, tuttavia la sua condotta – che potremmo definire spregiudicata – aveva uno scopo ben preciso, ossia difendere il suo Stato, in particolare dal nemico di una vita Federico da Montefeltro, con il quale rimaneva sempre forte lo scontro sulla conquista dei territori tra Marche e Romagna, in particolar modo Pesaro, alla quale il Malatesta non voleva rinunciare.

Sigismondo Pandolfo Malatesta - WikipediaTroviamo quindi Sigismondo coinvolto in tutti gli scontri per il potere della penisola italica, Nel 1447 i fronti che si affrontavano in Italia erano essenzialmente due: Milano, gli Aragonesi signori di Napoli, e il papa, contro Venezia, Firenze e gli Angioini, che aspiravano a riprendersi Napoli. I due schieramenti si avvantaggiavano delle condotte dei più celebri capitani dell’epoca, tra cui il Malatesta e Federico da Montefeltro, che furono quasi sempre su fronti opposti. Ma è con l’alleanza con Firenze nel 1447 che il potere di Sigismondo raggiunse l’apice (tradendo un accordo con gli Aragonesi) con la vittoria a fianco dei fiorentini proprio contro gli ex alleati Aragona, guadagnandosi così l’appellativo di salvatore della Toscana. Tuttavia, il voltafaccia gli procurò molti nemici, che lo esclusero dai benefici della pace di Lodi (1454).

Nel 1448 Polissena era morta; Sigismondo, che fin dal 1446 aveva una relazione con la giovanissima Isotta degli Atti, poté infine renderla pubblica; Sigismondo e Isotta si sposeranno nel 1456. Gli anni successivi al 1450 costituirono il momento di maggior splendore della corte di Sigismondo, che – da intelligente e generoso mecenate – si circondò di artisti e intellettuali di fama: l’Alberti, appunto, e inoltre Piero della Francesca, Agostino di Duccio, Matteo de’ Pasti, Roberto Valturio, Basinio di Parma e numerosi altri.

In questo periodo di relativa stabilità dello Stato controllato da Sigismondo furono molte le opere nei castelli e rocche possedute dal Malatesta, sia nella Valmarecchia che nel Montefeltro; furono molto migliorate anche la viabilità intera tra Marche, Romagna, Toscana e Umbria, e furono fatte molte innovazioni nei rapporti tra economia rurale, commerciale ed in generale orientandosi verso una liberalizzazione del mercato del tempo.

Nel 1459 salì al soglio pontificio Pio II, da tempo ostile a Sigismondo, che al congresso di Mantova gli impose umilianti condizioni. Nei due anni successivi la situazione precipitò velocemente: Pio II richiamò Sigismondo per tre volte in seguito alle ripetute disubbidienze, il quale scelse di ribellarsi al papa. Non ottenendo alcun segno di pentimento, il papa lo scomunicò il giorno di Natale del 1460, sciolse i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà e gli intentò un processo per “diffamarlo” (1461) che si concluse con il rogo della sua effigie a Roma (1462).

Ne conseguiva inoltre il decadimento dello status di vicario nei territori della Santa Sede. Pio II, senese di nascita e quindi avverso al Malatesta sin dai tempi del suo cattivo comportamento con la città natale, costituì una vera e propria lega contro di lui assieme al re di Napoli, al duca di Milano ed a Federico da Montefeltro. Stritolato dalla coalizione, Sigismondo fu quindi privato di tutti i suoi domini e conservò la sola città di Rimini. Nel 1464 andò in Morea, a combattere contro i Turchi; tornò in patria nel 1466, alla morte di Pio II. Nella primavera del 1468 tornò al soldo della Chiesa in una campagna contro Norcia. Qui contrasse una malattia che lo portò pochi mesi dopo alla morte. Spirò il 7 ottobre 1468 a Rimini e fu sepolto nel Tempio Malatestiano, che le vicissitudini degli ultimi anni non gli avevano permesso di completare.

 

Sigismondo il Mecenate

Sigismondo Pandolfo Malatesta fu anche poeta e patrono delle arti. In vita la sua fama fu legata soprattutto all’attività di condottiero e capitano, pur nell’incongruenza di essere signore di uno stato piccolo e tutto sommato marginale, e gradualmente destinato ad eclissarsi. Ben più duratura e crescente nei secoli è stata piuttosto la sua notorietà legata alla promozione di iniziative artistiche e culturali, spesso assai ambiziose e dispendiose, tutte votate all’esaltazione della sua immagine personale e di quella della dinastia malatestiana, fino quasi a farne una vera e propria religione. Proprio i conflitti col papato lo portarono a promuovere l’elaborazione di una particolare commistione tra mondo classico paganeggiante, cultura cristiana e culto personale, arricchito da suggestioni cavalleresche e cortesi. Non fu dunque un semplice finanziatore di opere, bensì un elemento attivo nei processi creativi, incarnando quegli stessi ideali che intendeva promuovere: uomo di guerra e di cultura, cavaliere e sovrano assoluto.

La sua strategia auto-rappresentativa si affidò al conio di medaglie, che venivano poi donate come preziosa memoria al pari di un ritratto dipinto. Affidandosi ai migliori artisti disponibili, quali Pisanello e, dopo la partenza di quest’ultimo, Matteo de’ Pasti, fece rivivere la suggestione imperiale della moneta antica, affidando la propria effigie (e quella di Isotta) all’immortale glorificazione.

Dagli anni trenta chiamò alla propria corte alcuni degli artisti e degli architetti più qualificati e all’avanguardia sulla scena italiana, affidando loro essenzialmente due grandi progetti, di carattere per certi versi opposto. Uno era la fortificazione di Castel Sismondo, la residenza fortificata familiare, per la quale si avvalse anche della consulenza di Filippo Brunelleschi. L’altro era la ricostruzione della vetusta chiesa di San Francesco, divenuta poi il Tempio Malatestiano, con un’operazione più marcatamente culturale, condensante valori filosofici e teologici, in cui rivivevano i fasti pagani e le istanze cristiane, quale opera votiva e sepolcrale, per sé e la sua dinastia. In questo cantiere, gradualmente ampliatosi fino a interessare l’intero edificio, lavorarono nomi noti come Leon Battista Alberti, Piero della Francesca e Agostino di Duccio, oltre allo stesso Matteo de’ Pasti e artisti di ambito locale come Matteo Nuti e Cristoforo Foschi. La particolare commistione tra antico e moderno si percepiva fin dalla decorazione delle cappelle, legate alle divinità pagane, alle Muse, alle Arti liberali, alle Sibille, ai Profeti e ai Dottori della Chiesa, rappresentanti una sorta di storia dell’operare divino e umano, intervallata da numerosi riferimenti alla storia personale del Malatesta, alla sua dinastia e a Isotta.

In campo letterario, da un lato le conoscenze militari, arricchite dall’esperienza pratica, portarono a un rifiorire della trattatistica bellica, nelle opere di sintesi di Roberto Valturio. Dall’altro il neoplatonismo fiorentino trovò qui una particolare declinazione, nell’opera di letterati come Basinio da Parma, Tobia Borghi, Guarino Veronese e Giusto de’ Conti.

da artuvisite.it

 

E per la sua donna Sigismondo si fece poeta

Che cosa non è stato detto e scritto da cronisti e storici, da romanzieri e poeti, sulla vita e le gesta di Sigismondo? Chi ne fa un volgare assassino, chi lo celebra come mecenate e capitano, chi lo definisce «più belva che uomo», chi lo giustifica e lo assolve alla stregua delle condizionali morali, politiche ed economiche del tempo in cui visse.

Una cosa è però certa: Sigismondo non ci appare, né va considerato come un personaggio che desti solamente curiosità. Sigismondo fu troppo temuto e troppo invi­diato in vita per meritare di essere adeguata­mente giudicato dopo morto. È qui, in fondo, la causa che ci nasconde ancora la sua vera anima; la quale denota tuttavia – i più recenti studi lo provano – una singolare fusione di ciechi istinti e di raffinata intelligenza. Si sa che gli elogi più attendibili sono quelli degli avversari. Ebbene Pio II Piccolomini che osteggiò Sigismondo in tutti i modi, che lo scomunicò, che lo dipinse coram populo come eretico e colpevole di «omicidio, stupro, adulterio, incesto, sacrilegio, spergiuro» e d’infiniti altri «turpissimi e atrocissimi misfatti», ebbe a scrivere di lui queste parole che si riportano nella traduzione letterale: «Aveva un singolare acume, era dotato di una pari forza fisica; conosceva la storia nelle sue tradizioni e nei suoi avvenimenti; qualsiasi argomento s’accinse a trattare, sembrava nato per essi» (Commenta­rii, II, 9).

Questo giudizio ci fa capire molte cose di Sigismondo. La sua inflessibile energia, la sua ambizione, la sua audacia, il suo acuto ingegno, il suo trasporto per l’arte, il suo amore per Isotta. Quest’ultimo fu il più pro­fondo sentimento che avesse radici nel suo animo. Sigismondo si innamorò di Isotta, figlia di Francesco di Atto degli Atti, nobile di Sassoferrato che godeva in corte uffici e dignità ragguarde­voli, quand’ella era appena una fanciulla. Lui aveva poco più di venti anni. L’amore crebbe col passar del tempo e fu corrisposto. Isotta era intelligente, colta (il Pastor sostenne che non sapesse scrivere sol perché una lettera da lei diretta a Sigismondo era vergata in suo nome da altra mano!) e – con buona pace di certi intenditori – anche bella.

O vagha e dolce luce anima altera!
Creat~tra gentile o viso degno
O lume chiaro angelico e benegno.
In cui sola virtu mia mente spera.
Tu sei de mia salute alta e primiera
A anchora che mentien mio debil legno
Tu sei del viver mio fermo sostegno
Turture pura candida e sincera.
Dinanzi a te l’erbetta e i fior s’inchina
Vaghi d’essere premi del dolce pede
E commossi del tuo ceruleo manto.
El sol quando se leva la matina
Se vanagloria e poi quando te vede
Sconficto e smorto se ne va con pianto

Ma come mai – si sente dire – Sigismondo convolò a nozze con Polissena dopo che fu morta (c’è chi parla di uxoricidio), la pri­ma moglie Ginevra? E come mai, spentasi Polissena (al solito l’avrebbe ammazzata il ma­rito, mentre si sa che morì di peste) nel 1449, gli sponsali con Isotta avvennero solamente sette anni dopo? Si potrebbe rispondere che i matrimoni dei principi in quella epoca travagliata dalle lotte di su­premazia rispondevano quasi sempre a una sola legge: a quella della politica. Orbene Ginevra era figlia di Nicolò III, marchese di Ferrara; Polissena figlia naturale del conte Francesco Sforza, capitano e gonfaloniere della Chiesa. Due potenti signori con i quali il Malatesta aveva tutto l’interesse di andar d’accordo. Ci sa­rebbe, se mai, d’aggiungere che oltre a code­ste mogli legali, Sigismondo possedette gran numero di amanti in parte sconosciute, salvo Vannetta de’ Toschi e Gentile di Giovanni, da cui ebbe uno stuolo di figli.

A che pro? Isotta era sempre Isotta; la donna veramente amata; colei in cui si poteva cer­care rifugio e conforto, colei che fu consigliera prudente e forte, colei che fu fedele nella buona e nella cattiva fortuna. Ancora fanciulla, ancora giovinetta è già abile a consolare il suo signore nei momenti di sconforto; gli medica le ferite fatte al suo orgoglio; ripara gli errori politici da lui commessi; lo stimola nelle opere della cultura e dell’arte. Dive­nuta moglie (questo avvenne verso il 1456) regge, vigile e accorta, lo Stato nelle assenze del marito; tratta con ambasciatori e diplomatici; vende i suoi gioielli per sostenere, lo sposo cacciato da Rimini. Madre esemplare, sacri­fica tutto per i figli avuti da lui, da Sigi­smondo

Ed è per questo che non c’è bisogno d’addos­sare a Sigismondo l’infamia di un duplice uxoricidio. Se Isotta era quella che abbiamo sommariamente descritta – e le mie parole sono fondate su documenti storici – non si vede perché si debbano ripetere pappagalle­scamente le solite dicerie contro colui ch’ella dominava moralmente. Che Sigismondo fosse uomo di pochi scrupoli (di grazia, quale principe ne aveva?), passi; ma che sia neces­sario credere solamente alla requisitoria eccle­siastica del fiscale Andrea Benzi, a Giovanni Simonetta, che – notate – fu segretario della corte sforzesca, e a Pio II, è troppo comodo. Si consiglia pertanto di leggere quan­to scrisse in proposito il Soranzo che, dopo accurate ricerche d’archivio, ha potuto sfatare il terribile sospetto.

Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore dai mille volti